Pubblichiamo una bella intevista a Massimo Alfano, Presidente del Museo Navale di Carmagnola, da parte di Italian Ship Lover
Chiunque si occupi di “cose navali” non può evitare di incrociare, almeno una volta nella vita, le splendide fotografie della Collezione Alfano o di imbattersi, magari del tutto inconsapevolmente, nei servizi realizzati da questi Autori. Perché Autori declinato al plurale? Perché si tratta di due autorevoli figure, padre e figlio, una continuità, prima ancora che una discendenza, un’attività cominciata con i rullini e pesanti macchine fotografiche quando i navalisti erano ancora pochi, ed i fotografi meno, con un’attività impegnativa e faticosa.
Guido Alfano, padre, con la minuziosità dei suoi scatti, oltre alla bellezza delle immagini, ci ha concesso di disporre, ancor oggi, di dati preziosi; Massimo Alfano, il figlio, ispirato dalla passione del padre e coscienzioso allievo, ha saputo ampliare la “gamma di interventi” sui temi navali abbracciando anche la scrittura e le arti figurative. Questa intervista a Massimo Alfano serve quindi a capire il “navalismo” e l’impegno che comporta (1).
La conoscenza e lo studio sono attività faticose spesso evitate perché obbligano ad una selezione: questa constatazione elementare, valida in qualsiasi campo, diventa fondamentale quando si parla di documentazione navale ed essenziale e distintiva quando affrontiamo il tema dei pittori navali (veramente pochi, come tali, tra una moltitudine di pittori di marina e di marine). Se è vero che gli storici interpretano i fatti, che i fotografi fissano i momenti e che i pittori rievocano le percezioni, fissando sulla tela le sensazioni che sperimentano di fronte al cavalletto, lei come riesce a conciliare queste diverse anime?
Comincerei con un aneddoto che può illuminare tutto l’argomento: nell’anno 1672, mentre era in corso la battaglia di Solebay, il pittore Willem van de Velde il Giovane spese non poco denaro per noleggiare una barca e convincere i rematori ad inoltrarsi tra le navi che stavano combattendo. Armato del suo blocco per schizzi andò a cercare quella realtà oggettiva di cui i suoi quadri avevano bisogno e fu sufficientemente fortunato da poter tornare illeso in studio.
Se avesse avuto una macchina fotografica sicuramente ne avrebbe fatto uso al posto del blocco di appunti ma non sarebbe rimasto indenne dall’esperienza che la fotografia porta. Dal momento che vivo in un’epoca che conosce questo strumento ho fotografato navi direi da sempre e come pittore traggo grande giovamento da quella mente di fotografo che rimane in me. Ugualmente mi rendo conto che molte delle mie foto erano contaminate dalla presenza invadente del pittore.
Condivido l’affermazione che il pittore rievochi sensazioni perché quella è la vocazione della pittura, ma aggiungo che, nello specifico, il pittore navale in genere non ne è travolto. C’è quasi sempre un bilanciamento tra emozione ed esposizione dei dati oggettivi. Riconosco poche eccezioni a questa impostazione. Forse Rudolf Claudus come artista neoromantico abbandonò la forma nel profluvio della sensazione, ma la gran parte dei pittori navali è caratterizzata da una grandissima fedeltà alle linee dei loro soggetti.
Trovandomi legato ai modelli del realismo pittorico del ‘900 amo muovermi nell’oggettività andando però a indagare l’elemento di umanità che genera e governa quella realtà. È una ricerca di equilibrio che pone al centro l’emozione ma la governa entro i saldi canali della verità. Mi trovai a dire, ormai molto tempo fa, quando tenni un seminario all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino che la mia scelta è quella della ricerca della verità nel reale e della bellezza nella verità.
La verità come immagine, ma anche la storia come verità: in che modo lei interpreta la storia, oltre che con l’immagine?
Il legame con la storia è per me il fondamento di ogni azione. Scrivo saggi di storia di marina. Per anni ho consumato libri di storia navale e tutt’ora su molti argomenti seguo tutto quanto viene pubblicato. Ragazzino, poco dopo la prima comunione, mi trovai a nascondere i classici libri di Dickens che mi erano stati regalati e che trovavo noiosissimi per buttarmi a capofitto su Tsushima di Thiess che avevo prelevato dalla biblioteca paterna.
Fu la mia prima lettura di cose di marina. Molto tempo dopo cominciai a sentire il bisogno di ridefinire alcuni argomenti che mi erano cari e che anno dopo anno continuavano ad appassionarmi. Così, tra gli altri libri che pubblicai, prese corpo un saggio che trattava delle analogie emotive che legavano vari personaggi della guerra di corsa, scelti su un arco temporale molto ampio.
Pochi anni dopo, in seguito all’emergere di nuove fonti documentali, entrai nella determinazione di lavorare sulla vicenda della Squadra Tedesca dell’Asia Orientale nel 1914 con l’intenzione di realizzare una trilogia incentrata sulla figura di Maximilian von Spee che toccasse l’argomento usando un taglio analitico differente rispetto a quello che avevo incontrato fino ad allora.
Pittura e scrittura procedono strettamente unite tanto che una innesca la nascita dell’altra. Dai tre libri dedicati a von Spee, alle sue navi e ai suoi avversari nascerà un ciclo di lavori pittorici così come, con procedimento inverso, da una grossa opera pittorica che ritrae la Regia Nave Illiria è nato un piccolo libro dedicato alle sorprendenti vicende di quella nave.
Poco più di dieci anni fa realizzai un insieme di quadri dedicati alle navi della Marina Sabaudo Sarda che credo sia la più estesa analisi di quella marina fatta attraverso la pittura, tanto che l’ammiraglio Paolo Bembo nel suo volume La storia della marina attraverso i dipinti, decise di indicarmi come pittore pre-unitario pubblicando una grossa selezione di opere di quel mio “ciclo sabaudo”.
Quello che sento intimamente come procedura vincolante è che non ha senso dipingere navi del passato senza fare ricerca storica. Poi, alla fine, uno ci si immerge a un punto tale che diventa impossibile non dipingere quello che si è scoperto, conosciuto, direi rivissuto.
Avverte il peso di una eredità importante, la continuità di una tradizione e la gestione di un rilevante patrimonio iconografico?
Un peso lo è certamente ma in modo ancora più pervasivo è una felicità. Mio padre era un cultore di storia di marina e un buon fotografo navale. Io sto dando seguito a un grande archivio fotografico alla cui creazione ho partecipato già da ragazzino negli anni ’70 e a una ragguardevole biblioteca che ho ampliato e sto ampliando tutt’ora.
Oggi nell’insieme delle due cose c’è molto di più di una semplice collezione di immagini e informazioni che uso per dipingere e scrivere, c’è la testimonianza di un’epoca. Non sono solito usare il termine “collezione” in questo caso.
Quando, ciò che nasce come la collezione di un padre si estende, si giova della partecipazione appassionata del figlio e passa di mano in seconda generazione, acquisisce quasi una sorta di autonomia e dignità. Il “salvataggio” di antiche fotografie dalla dispersione e dall’abbandono, spesso foriero di distruzione, unito alla “produzione” di immagini realizzate secondo i migliori canoni della fotografia navale mi ha sempre fatto pensare all’opera dei frati nel medioevo.
Quanto del nostro patrimonio di libri è dovuto all’opera di quegli uomini che salvarono testi e altri ancora ne produssero? In questo archivio di molte migliaia di libri e circa 120.000 immagini fotografiche ci sono centocinquant’anni di imprese di uomini che continuano a esistere proprio perché c’è chi ne custodisce i racconti e li ripropone come testi o immagini. Sento tutto questo come un mandato.
Colore e forma, insieme al peso dei dettagli, sono il tratto distintivo dei pittori navali?
Ebbi modo di scoprire il fascino dell’uno e dell’altra attraverso due strade diverse. L’approccio al colore fu quanto di più convenzionale si possa immaginare: nei primissimi anni della scuola elementare mi venne regalato un cofanetto di tempere. Quei tubetti mi permisero di scoprire l’uso dei pennelli e la possibilità di mescolare e creare colori che con i soli pastelli trovavo impossibile.
Ogni bambino nella prima metà degli anni ’60 veniva in contatto con le matite colorate, sempre presenti nei portapenne della scuola elementare e molti provavano anche acquerelli o tempere ma dopo poco abbandonavano quella pratica. Mi rimase invece addosso e divenne uno dei modi che da sempre uso per rapportarmi con la realtà.
La scoperta della forma avvenne negli stessi anni e in un modo credo invece assolutamente particolare. Molti bambini avevano allora delle piccole macchine fotografiche di plastica colorata che contenevano una ruota di piccole diapositive. Guardando nel mirino si vedeva la torre di Pisa, poi scattando la foto compariva il Colosseo e avanti così. Non ebbi mai una macchina giocattolo di quel tipo.
Accompagnavo spesso mio padre in giro per i porti o in quei punti della costa dove era possibile vedere le navi passare ad una distanza che consentiva di fotografarle. Un giorno, in un porto, vicino a una nave ormeggiata in banchina, mi mise in mano una macchina fotografica vera, dicendomi, “dai, fotografa anche tu questa nave“. Mi trovai con totale sorpresa a manovrare un oggetto nero e argenteo, pesante, bellissimo e appassionante. La prima cosa che mi venne da dire guardando nel mirino è, “non ci sta“.
Da allora scoprii infinite piccole cose sull’inquadratura del soggetto partendo dal fondamentale “tanto molo non ti serve se lasci fuori dalla foto i radar” e le navi divennero per me note come lo erano i miei giocattoli.
Altri ragazzini mi chiedevano “…ma per te è meglio la Ferrari o la Porsche?” “mah,” rispondevo, “e per te sono meglio i Kashin o gli Adams?”
La fotografia mi portò a conoscere la forma e i dettagli delle navi e a provare piacere nel vedere come la luce dei diversi momenti del giorno sa giocare con le loro lamiere. Il peso dei dettagli: mi verrebbe da dire che quando diventa un peso si sta sbagliando.
Nella pittura navale il dettaglio è importante, enormemente più importante di quanto avviene nella pittura di paesaggio o nella ritrattistica ma la quantità di dettaglio deve essere dosata con cura. Proprio perché il dettaglio è seduttivo ed è peculiare della pittura navale occorre stare all’erta perché l’eccesso di dettaglio ci porta fuori dalla realtà. Di fatto è la distanza dal soggetto che seleziona e ci dice quanto dettaglio è consentito.
L’avviso a ruote Authion – Opera di Massimo Alfano (collezione privata/tecnica olio a pasta grassa)
Fotografia e pittura: un antagonismo? Un’alternativa? Qual è la mediazione?
Per molti anni, nella mia vita, fotografia navale e pittura procedettero parallele senza incontrarsi. Usavo ormai ogni tecnica pittorica, ma l’olio era diventata quella con cui mi trovavo veramente a mio agio. Dipingevo le cose più varie ma non sentivo di avere un soggetto che fosse autenticamente mio e avvertivo la cosa come una mancanza.
Lo studio della storia di marina e la conoscenza visiva delle navi contemporanee attraverso la fotografia era una cosa che, come la pittura, mi accompagnava da sempre ma, in più, mi forniva una certezza confortante: la completa passione per l’argomento.
Nel 1989 disegnai mio figlio nella culla, poi alcuni giorni dopo buttai giù uno schizzo, a memoria, della corazzata Conte di Cavour all’entrata in servizio. Da quel giorno non dipinsi altro che navi usando i vent’anni di archivio mentale di immagini e sensazioni che possedevo.
È banale a dirsi ma essere un pittore di marina è imprescindibilmente legato a una conoscenza visiva delle navi, meglio ancora ad una completa cultura di quel mondo. Perchè è difficile dare senso a una forma pittoricamente se non sai a cosa serve quello che stai dipingendo.
In questo senso anni di fotografia e cura dell’archivio storico navale di famiglia mi hanno portato a quella vicinanza con l’oggetto che nasce dalla continua frequentazione alimentata dalla passione e dallo studio.
Ecco la scoperta e la conoscenza della forma.
Si tratta di un percorso personale ma si basa su quegli elementi che la storia della pittura navale conferma come essenziali, almeno quella modernamente intesa, dal ‘600 olandese in poi.
Certamente esiste una sfida, principalmente con il soggetto, la cui conoscenza e la sua “resa” non soddisfa mai l’autore, che sia fotografo o pittore …
Pittoricamente l’oggetto è spietato. Se si procede nell’ambito del realismo figurativo, il paesaggio consente un buon margine di libertà nel delineare un’immagine mentre l’oggetto lo annulla. Diviene finto. Ma la pittura deve essere realtà non finzione.
Potrei dipingere una natura morta con un violino e una porcellana Khang xi? Certo, apparentemente, ma quell’opera non reggerebbe mai lo sguardo di un liutaio e di un collezionista di porcellane cinesi.
Non so come un violino antico reagisce alla luce o quel tipo di porcellana si comporta avvicinandola ai toni caldi del legno. E non basta una foto alla quale ispirarsi.
Bisogna conoscere intimamente violini e porcellane per renderli reali e saperne comunicare la bellezza. Nel caso della pittura di marina la condizione è ancora più impegnativa perché al tavolo sul quale sono appoggiati gli oggetti sostituisco un elemento dinamico che è il mare.
E il dinamismo del mare non è autonomo ma si rapporta alla nave. Accade a volte di vedere un amico da lontano e riconoscerlo non dalle fattezze del volto ma da come si muove, dal suo passo. Ecco, la nave, ogni nave, ha un suo modo di muoversi in mare che le è peculiare. Non la si può tradire attribuendole posture che non sono sue.
La sfida con il soggetto è il continuo tentativo di estrarne la bellezza che possiede e comunicarla attraverso la pittura.
Abbiamo parlato del soggetto, la nave, ma in effetti dobbiamo considerare anche alcuni elementi che influiscono sulla realizzazione dell’opera: il mare ed in particolare le condizioni meteorologiche, che non si possono ridurre al bello o al cattivo tempo, e la luce che caratterizza i vari momenti della giornata. Una nave è diversa all’alba o al tramonto … un soggetto difficile da conoscere e più ancora da interpretare, se non rientra nel “vissuto”.
L’ambiente, quindi mare e cielo sono una condizionante che diviene una straordinaria opportunità per raccontare pittoricamente il soggetto nave. Ma c’è un terzo elemento rende la pittura di marina unica. La possibilità di dipingere il vento.
Non solo il mare, ma il fumo, l’atteggiamento che prende la nave e, se si tratta di un veliero, la posizione delle vele e la tensione delle manovre raccontano cosa sta avvenendo. Il fumo ci dice cosa sta facendo la macchina in quel momento, ci parla della pressione barometrica e dell’intensità del vento e tutto, mare, cielo, spuma, nave, fumo, vele, manovre si unisce per raccontare una storia.
La torpediniera francese 319 – Opera di Massimo Alfano (olio su tela)
Quali sono gli stimoli che accomunano il pittore, il fotografo e lo scrittore?
Ecco cosa mi ha affascinato e cosa dipingo. Storie, racconti. Con quei modi e quelle regole che il realismo pittorico ha messo in pratica da quattro secoli. Considero pittura e scrittura come due alfabeti diversi che uso per esprimere il racconto che nasce dalla medesima ricerca.
L’argomento di studio porta a volte dentro di sé l’acciarino che accende la passione per la vicenda ed ecco che una situazione, una serie di fatti chiedono di essere approfonditi, chiariti per poi venire narrati, con la pittura, con la scrittura, con entrambe.
Il punto di partenza è unico, il fascino di una storia. Ma se in pittura un semplice ritratto, descrittivo di un soggetto molto noto, uno ship portrait, trova una sua ormai secolare dignità, e non soffre nella ripetizione del soggetto, nella realizzazione di un saggio storico credo sia necessario cercare una motivazione più forte.
Un bel ritratto della Bismarck non sarà mai un eccesso mentre l’ennesimo saggio sull’operazione Rheinubung, in assenza di elementi documentali nuovi, rischierebbe veramente di essere superfluo.
Ho sentito il fascino dell’avventura nel cercare documenti sulla storia della nave reale Illiria e il piccolo libro che ne è nato parla di una nave di cui nessuno si era mai occupato ma che ha invece una carriera ricca di elementi di grande interesse dove si mescolano marina, politica, estetica il tutto reso frizzante da situazioni degne di un romanzo giallo.
Ecco che si è messo in luce lo scrittore, lo storico con altro metodo di ricerca, non i fatti e le cronologie, i “perché” legati al fattore umano: è corretta questa interpretazione da lettore?
Il diverso approccio ha la sua evidenza nel difficile lavoro della trilogia dedicata all’Ostasiengeschwader, dove molti saggi storici sono comparsi nel corso dei decenni: la vicenda chiedeva un ulteriore intervento per modificare numerosi punti di una vicenda solo apparentemente chiarita.
Ma c’è di più. Credo veramente che la saggistica possa, o meglio, debba, essere letteratura e la letteratura non può fare a meno dell’uomo. Dell’uomo studiato, scoperto, conosciuto nelle sue motivazioni e nel suo carattere per comprendere a fondo ogni perché del suo agire.
Rifuggo dall’austerità degli studi che si concentrano esclusivamente sulla componente tecnica e fattuale cercando di aggiungere in ugual misura quella dei caratteri umani perché le navi e le squadre sono fatte di carne e legno o di carne e metallo e ogni momento decisionale è imprescindibile dalla formazione e dalla psicologia di coloro che le hanno condotte in azione.
La comprensione dell’uomo nelle sue componenti emotive nulla toglie alla scientificità dello studio dei fatti anzi, ne rafforza l’affermazione. Questa via ho scelto andando ad indagare i personaggi che hanno agito nelle storie di cui ho scritto e sto scrivendo.
Ora i testi sembrano avere esaurito la spinta di avventura che si era mossa in me ma non è così, i lavori pittorici arriveranno, è inevitabile.
Pittori di marina, pittori di navi (si arriva sino agli ex voto, che sono forse i più diffusi ed uno degli aspetti più noti, passando per la “pittura armatoriale” che decorava gli “scagni” genovesi ed era illustrazione delle locandine delle compagnie di navigazione) o pittori navali? Per la gente comune la confusione è massima
Non mi definisco pittore di marina ma pittore navale. Un poco di anglofilia e il temine “naval” usato nell’italiano alla maniera anglosassone per dire che mi muovo prevalentemente in ambito di marine militari. E come tale sono strettamente legato alla storia.
La pittura di marina intesa come navigazione mercantile o nautica competitiva o da diporto è molto vicina e fa uso dei medesimi elementi analitici ed espressivi mentre la classica spiaggia con l’ombrellone e la barca tirata in secco non appartiene a questo mondo ma nettamente a quello molto più ampio della paesaggistica di mare.
Ugualmente l’ex voto non utilizza alcuno degli schemi della pittura navale e rientra invece nello spazio pertinente alla pittura devozionale.
Dal punto di vista delle tecniche impiegate mi piace cercare di accordare la tecnica con il tipo di soggetto ritratto e soprattutto con la sua epoca di attività. Da anni studio e percorro in modo appassionato il tempo del ferro e del carbone.
Quel periodo fervido di innovazioni che va, grosso modo, dal 1870 al 1920. Per quello, come per la marina velica ritengo che l’olio su tela sia perfetto.
Non lo è altrettanto per i soggetti più moderni per i quali ho cercato qualcosa di diverso. Come dipingere oggi una Whitby, un Coontz, un Surcouf, un Impetuoso, una delle navi che ho incontrato tante e tante volte nei miei giri fotografici?
Soprattutto ho cercato una tecnica che fosse mia e non praticata da altri. Poi mi è piaciuta tanto che la applico anche a soggetti del tempo del vapore.
Così uso il pastello da ritratto con un poco di acrilico e a volte china su un cartone sabbia ma mi limito a dipingere solo il soggetto con un fazzoletto di mare intorno. Come se l’osservatore tenesse in mano la nave concentrandovi tutta l’attenzione e in questo caso non dipingo il cielo. E la scoperta bella è che ci si dimentica che non c’è.
Come nei ritratti di figure umane fatti da secoli a questa parte. Considero la nave proprio in questo modo, come un volto unico che riassume le molteplici identità dei marinai che la animano.
Il brigantino Daino – Opera di Massimo Alfano (olio su tela)
Note
- Nell’immagine di copertina è ritratto il panfilo reale Iljiria (ex Lamproie, ex White Diamond, dal 1939 Illiria) , opera di Massimo Alfano (collezione privata/olio a pasta grassa su tela)
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