La prima libera uscita

Ancora un racconto che ci accomuna tutti a cura di Nunzio Giancarlo Bianco

Tributo personale alla citta di TARANTO..

La prima franchigia — la tanto attesa libera uscita — arrivò di sabato, dopo cinque lunghi giorni scanditi da test, vestizione da militare, assegnazione delle categorie. Finalmente, quel sabato giunse come un varco tra l’adattamento e la libertà. Era uno dei tre giorni in cui ci era concesso uscire dall’Istituto Militare: mercoledì, sabato e domenica. Ma l’uscita non era mai scontata — dovevi essere libero da comandate, servizi di guardia o punizioni. Un lusso conquistato.

Vestiti di bianco, nella cosiddetta “tenuta da Paperino”, con quelle scarpe nere di finto vitello e il berretto bianco con il cordone nero a indicare l’appartenenza all’istituto, ci ritrovammo fuori, in attesa della Circolare Nera che ci avrebbe portati in città, a Taranto.

Avevamo mille progetti in testa — divertimenti, avventure, libertà — ma alla fine ci ritrovammo tutti dentro le cabine della SIP, con la cornetta all’orecchio, a cercare la voce dei nostri cari, delle nostre morose. Io, come mio solito, mi allontanai. Scelsi il silenzio e raggiunsi il ponte girevole, quel confine liquido tra Mar Grande e Mar Piccolo. Fu lì che capii, davvero, cosa significasse “Taranto, la città dei due mari”.

Nel Mar Piccolo, le navi militari stazionavano immobili, come giganti assopiti. Erano i tempi del Veneto, del Duilio, dell’Indomito, dell’Impetuoso, e tante altre ancora. Ma il mio sguardo fu catturato dalla nave Fasan, in bacino, tagliata a metà lungo la lunghezza, come un cuore aperto. Stava subendo grandi lavori, una trasformazione. Per la prima volta vidi, dall’alto, l’intimità di una nave. Io, che pure provenivo dall’IPSAM, non avevo mai avuto occasione di vedere così da vicino l’anima di una signora del mare.

Giunta l’ora di pranzo, tornò a farsi sentire il mio essere scugnizzo. Cercavo qualcosa che mi parlasse delle mie radici. Finì che mi ritrovai in Via Pupino, alla pizzeria Vera Napoli. Ordinai una Margherita. E lì, con sorpresa, la trovai meravigliosa. Quella pizza fu come un ancoraggio, un ponte tra il presente e le mie origini.

Girovagai per la città, camminai senza accorgermene per chilometri. E senza volerlo, mi innamorai di Taranto. Mi accolse con un calore inatteso. Da giovane allievo delle Scuole CEMM, sentii subito che quella città avrebbe avuto per sempre un posto speciale nel mio cuore.

La gente di Taranto era giovane, vivace, disponibile. Negli anni ci sono tornato più volte, e ogni volta Taranto mi ha riaperto l’anima, riportandomi a quando ero ragazzo. Ogni libera uscita era come una piccola fuga dai sacrifici quotidiani. Taranto sapeva lenire la lontananza e curare, silenziosamente, i dolori che si portano dentro, quando si è lontani da casa.

Col tempo, Taranto smise di essere solo una città di passaggio. Smise di essere una cornice, e divenne parte del quadro. Cominciò a entrarmi dentro, silenziosamente, un giorno alla volta, tra una libera uscita e l’altra.

Ogni angolo diventava mio, ogni strada una compagna silenziosa. Iniziai a conoscerne le abitudini, le piazze, i profumi. L’odore del mare misto a quello del pane appena sfornato al mattino, i vicoli stretti della città vecchia, le voci dei venditori, i motorini che sfrecciavano con la sfrontatezza di chi la vita la conosce bene.

Fu lì, tra le pietre calde e il vento salmastro, che cominciai a sentirmi parte di qualcosa. Non ero più solo l’allievo, lo scugnizzo forestiero. Cominciai a diventare, poco alla volta, uno scugnizzo tarantino. C’era chi mi chiamava per nome, chi mi offriva un caffè, chi mi salutava col sorriso. E io, come un figlio adottivo, assorbivo quella nuova appartenenza.

Poi vennero i primi sguardi, quelli timidi, acerbi, pieni di speranza. E subito dopo, i primi baci rubati, veloci come un tuffo, dolci come un pomeriggio d’estate. Ricordo ancora una ragazza con gli occhi neri come il catrame e la voce piena di cantilene pugliesi. Ci incontravamo al tramonto, sotto i portici o in riva al mare, e bastava uno sfiorarsi di mani per farci tremare. Non c’erano promesse, né grandi parole. Solo il presente, che in quei momenti sembrava eterno.

La città era complice, ci proteggeva. Il ponte girevole diventava il nostro confine romantico, le panchine lungo il lungomare i nostri rifugi. E mentre la divisa mi stringeva addosso il dovere, la città mi allentava il cuore, mi permetteva di essere ancora un ragazzo, di ridere senza motivo, di sognare.

Ogni uscita era un’esperienza nuova: una nuova via da esplorare, una nuova amicizia, un nuovo pezzo di me stesso da scoprire. Entravo nelle botteghe, parlavo con i vecchi seduti fuori dai bar, imparavo le espressioni tarantine, mi perdevo tra le bancarelle del mercato del pesce solo per il gusto di ascoltare le voci, le risate, il dialetto che ormai cominciavo a masticare anch’io.

E così Taranto divenne una seconda casa, non solo un luogo geografico ma una geografia dell’anima. Un luogo dove ho lasciato pezzi di cuore, ma anche dove ho trovato pezzi di me che non sapevo di avere. Ogni volta che ci ritorno, sento che una parte di me non se n’è mai andata.

Una sera, ricordo, ci fu una libera uscita che sembrava uguale a tutte le altre. Ma non lo fu.

Io e altri tre compagni — fratelli, più che amici — decidemmo di esplorare un po’ più a fondo la città vecchia. Quel dedalo di viuzze strette e umide ci attirava con il suo fascino misterioso, con quei muri scrostati che sembravano raccontare storie e quei balconi che traboccavano di panni stesi e voci femminili.

Entrammo quasi per caso in una piccola trattoria a conduzione familiare. Il profumo ci aveva rapiti da fuori: pomodoro fresco, origano, mare. Ci sedemmo senza tante cerimonie. La proprietaria, una donna sulla cinquantina, ci accolse come fossimo suoi nipoti tornati dal servizio. Non ci chiese nomi né gradi. Solo se avevamo fame. E avevamo una fame antica, quella che ti viene quando sei lontano da casa e ti nutri più di emozioni che di cibo.

Mangiammo di tutto: cozze alla tarantina, panzerotti fritti, spaghetti alle vongole. Ogni forchettata sembrava un abbraccio. E alla fine, quando ci portarono il dolce, una ragazza ci raggiunse al tavolo. Si chiamava Caterina. Figlia della cuoca. Aveva gli occhi chiari, grandi, e una risata che sembrava voler spaccare in due il silenzio della sera.

Parlammo, ridemmo, ci prendemmo un po’ in giro. Io, da buon napoletano, cercavo di tenerle testa con le parole, ma lei era più veloce di me. Tarantina verace, con la lingua tagliente e il cuore morbido. E poi, all’uscita, mi disse:

“Ti va di fare due passi?”

Non dissi di no.

Camminammo lungo il molo, in silenzio a tratti, parlando a bassa voce quando serviva. Il vento ci spettinava e i lampioni gettavano riflessi dorati sull’acqua. Fu lì, quasi senza volerlo, che venne un bacio. Niente di plateale, niente di rubato. Solo un momento giusto, nel posto giusto.

Non ci fu un seguito. Non ci furono promesse né lettere. Ma in quel bacio, c’era tutta la bellezza di un tempo che non torna, di un’età sospesa tra il dovere e il sogno.

Rientrammo all’istituto in tempo, ma con un sorriso di quelli che ti rimane attaccato per giorni. E quando, nei mesi successivi, le uscite si fecero più rare, più difficili, io pensavo a quella sera come si pensa a un piccolo miracolo quotidiano.

Taranto mi aveva regalato un frammento di eternità. Aveva continuato, giorno dopo giorno, a togliermi un po’ di malinconia e a restituirmi gioia semplice. Avevo iniziato a parlare come loro, a gesticolare come loro, a sentirmi uno di loro. Non ero più lo scugnizzo arrivato con la valigia e lo sguardo spaesato. Ero diventato parte del respiro della città.

E quando si tornava in camerata, con la divisa che puzzava di fritto e di mare, ci guardavamo in faccia e bastava uno sguardo per capirci. Nessuno parlava di Caterina, o di Anna, o di quel bacio sotto il molo. Ma ognuno di noi portava dentro qualcosa. Un pezzo di Taranto. E forse anche Taranto, nel suo silenzio, portava un po’ di noi.

timone

Un consiglio di lettura

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