Una bellissima poesia/racconto di Nunzio Giancarlo Bianco
Caro me stesso,
o forse caro fratello, amico, confidente silenzioso delle notti insonni,
oggi ho bisogno di scriverti con l’anima,
non con le parole.
Scriverti da qui, dal mare che non si ferma mai,
da questa nave che per tanti è solo ferro,
ma per noi è casa, madre, confine e rifugio,
testimone silenziosa della nostra vita sospesa tra onde e sogni.
Quante volte, steso in branda,
ho lasciato che il pensiero scorresse come corrente tra i portelli.
Pensavo a quanto fosse dura questa vita,
fatta di sacrifici, silenzi,
e di quella lunga lontananza dagli affetti più cari,
che ti corrode a piccoli morsi,
invisibile, ma costante.
Quante volte mi sono detto:
“Solo due minuti… poi torno su”.
Con la tuta ancora indosso,
le mani ancora sporche di lavoro.
E poi, al risveglio, erano passate ore.
Il corpo aveva deciso da solo,
che era tempo di fermarsi,
che quella stanchezza silenziosa aveva bisogno di spazio.
E io, in fondo, lo sapevo.
Una sciacquata di viso veloce,
e si tornava di corsa, con l’eco del dovere che rimbombava nei corridoi.
Incrociavi il collega che saliva dalla sala macchine,
col viso nero di carbone,
due occhi vivi, ancora accesi di gioventù,
che parevano urlare: “Ce la facciamo anche oggi”.
Sorrisi che erano più ferite che allegria,
perché sapevamo bene tutti,
che quel nero sulla pelle si era fatto strada anche dentro i polmoni.
Quel ragazzo era uno come noi,
uno che portava addosso il prezzo di un mestiere invisibile,
ma vitale.
E io mi sentivo fortunato.
Perché il massimo che portavo con me
era la polvere dietro agli apparati elettronici,
quella che ti si appiccica alla tuta ma non ti entra dentro.
Poi salivi a prua.
Il vento ti schiaffeggiava il volto e ti ricordava che eri vivo.
Dal boccaporto osservavi i nocchieri,
ragazzi giovani, con mani nude e tagliate,
che combattevano con catene d’acciaio,
che accarezzavano l’enorme ancora con rispetto,
che risalivano dalla cala del nostromo con un barattolo di vernice in mano
come fosse un’arma d’onore.
Eri lì a guardarli,
e capivi che ogni pennellata, ogni gesto, ogni fatica
non era solo manutenzione,
ma un atto d’amore verso la nave.
Perché mantenerla bella, pulita, ordinata
era come vestirla di dignità.
Era dirle: “Siamo tuoi figli, e ti onoriamo”.
E lei, la nave, lo sapeva.
Lo sentiva.
Ci osservava, con il suo metallo caldo di storia.
Ci proteggeva come una madre austera,
che non accarezza ma veglia.
Ogni notte insonne, ogni passaggio di consegne, ogni comando,
lei era lì, a custodirci,
a navigare con noi dentro,
portandoci attraverso i mari… e dentro noi stessi.
E da quella plancia –
occhio vivo della nave, vigile, instancabile –
scrutavamo l’orizzonte.
Sempre alla ricerca della meta,
di un porto, di una rotta,
ma forse, in fondo, cercavamo solo un senso.
Qualcosa che giustificasse tutto quel sacrificio.
Ogni giorno era una sfida, ma non eravamo soli.
Camminavi per l’unità e vedevi i cuochi,
giovani figli di tante terre diverse,
che cucinavano per saziarci… e per farci sentire meno lontani.
Quel brodo caldo, preparato tra mille difficoltà,
era un abbraccio.
Era un modo per dirci: “Non siete soli”.
Passavi dalla cooperativa e prendevi il solito caffè.
Rito sacro.
Poi la sigaretta.
Quella compagna tossica, ma fedele.
Ti sedevi sulla bitta e lasciavi che il fumo ti svuotasse la testa,
mentre la mente correva a casa,
ai volti che amavi,
alle strade che conoscevi a memoria.
Intorno a te, una compagine fiera,
un equipaggio fatto di matti, sì,
ma matti coraggiosi,
che portavano addosso la fatica con dignità,
che camminavano fianco a fianco senza mai voltare le spalle.
Uomini e ragazzi che, nonostante tutto,
non lasciavano mai trasparire la sofferenza.
E allora lo capivi.
Che il vero motore della nave non era solo il carburante.
Era l’anima di chi la abitava.
Il tricolore che sventolava sopra di noi
non era solo un simbolo:
era la Patria impressa nei nostri gesti,
nelle notti gelide, nei turni massacranti,
nei caffè condivisi e nei silenzi rispettati.
Quel tricolore brillava, invisibile,
anche dentro di noi.
In ogni occhiata silenziosa,
in ogni mano sporca ma onesta,
in ogni risata strozzata dalla stanchezza,
in ogni preghiera sussurrata alla notte.
Stavamo vivendo la nostra grande avventura del mare.
Non una fuga, non un destino subito,
ma una scelta consapevole.
Una vita fatta di onore, servizio, silenzio e coraggio.
E ancora oggi, a distanza di tempo,
quando il profumo del sale torna nei pensieri,
quando sento il richiamo del ferro e delle onde,
so che tutto questo…
tutto ciò che abbiamo vissuto…
è scolpito dentro me.
Nonostante la stanchezza.
Con rispetto eterno,
con appartenenza profonda,
con amore silenzioso per tutto ciò che è stato:
uno dei tanti figli del mare,
figlio di quella madre di acciaio
che ci ha forgiati e amati a modo suo.

Nunzio Giancarlo Bianco

Lascia un commento