Un po’ di storia della Marina Militare
C’era un periodo in cui la Marina Militare, tra un appalto dubbio e un convegno sulle missioni di pace, si ricordava di essere un’arma e decideva di costruire cose pericolose. Non power bank che esplodono, non monopattini tristi, ma roba che correva, tremava e faceva un rumore che spaventava i delfini a venti miglia. Nasceva così, all’inizio degli anni ’70 carichi di ottimismo tossico e kerosene, la Classe Nibbio.
Sette aliscafi costruiti da Fincantieri, quella che fino al giorno prima faceva i traghetti per Lipari e il giorno dopo decisero che era ora di mettere un cannone sul ponte e sfidare la fisica.
Erano il Nibbio, il Falcone, il Grifone, l’Astore, il Gheppio, il Condor e lo Sparviero.
Sessanta tonnellate di metallo e arroganza, ventisei metri di lunghezza, una turbina Rolls-Royce Proteus capace di far decollare un aereo, due diesel di supporto per manovrare a bassa velocità e un equipaggio di otto pazzi con un contratto regolare e una vita assicurata.
Il tutto per correre a cinquanta nodi, più veloci di un bando di concorso pubblico e infinitamente più utili. A vederli da lontano sembravano giocattoli con le ali. A vederli da vicino erano missili con l’ego di un incrociatore. Quando partivano in prova, il mare si apriva in due come nei film biblici e le cozze si staccavano da sole dagli scogli. Non c’erano vibrazioni: c’era un terremoto personale. Sembrava di vedere il sogno erotico di un ingegnere navale: rumore, velocità, vibrazioni e odore di kerosene. Ogni bullone era un atto di fede. Ogni missione, una scommessa. Il comandante stringeva il timone con la stessa fiducia con cui un prete regge un turibolo durante un uragano. Erano concepiti come “intercettori costieri”, cioè piccole navi-jet destinate a fermare qualsiasi cosa tentasse di passare vicino alle nostre coste. In realtà fermavano solo se stesse, spesso per guasto. Ma per pochi minuti, quando tutto funzionava, erano poesia. Volavano sull’acqua con le ali abbassate, leggeri e nervosi come gabbiani strafatti di kerosene. Sull’arco di prua troneggiava un OTO Melara da 76/62 Compatto, che aveva due difetti: sparava troppo forte e troppo vicino.
Ogni volta che apriva il fuoco, la plancia diventava un cantiere edile. I vetri andavano in frantumi, gli strumenti si resettavano e gli ufficiali imparavano a bestemmiare in cinque lingue. C’era chi giurava che, dopo un paio di tiri, l’eco radar mostrasse “vetri e cocci a prua”. Dietro, quando c’erano, due missili Otomat che facevano tanta figura nelle foto ma raramente nei lanci. Bastava un’onda storta per farli sembrare due stendardi di carnevale. In porto erano un orgoglio, in mare un incubo. Se partivano tutti e due, metà del ponte finiva in vibrazione libera. Ma almeno erano italiani, come la passione per i progetti ambiziosi e i bilanci che non tornano. Gli interni erano degni di un sommergibile in saldo. Spazi minuscoli, aria condizionata fantasma, dormitori che sembravano scatole da scarpe con le brande imbullonate ai serbatoi. L’equipaggio viveva in simbiosi con il rumore: di giorno turbine, di notte turbine, la mattina turbine più bestemmie. Chi serviva sul Nibbio sviluppava un riflesso condizionato: sentiva un ronzio e cercava un estintore. La turbina Rolls-Royce Proteus, meraviglia d’ingegneria, era anche la diva del sistema. Faceva il suo lavoro finché ne aveva voglia. Poi decideva di spegnersi, senza preavviso. Consumava carburante come un Boeing, sputava fiamme dagli scarichi e amava prendersi pause artistiche. In un giorno d’estate, con trentotto gradi in coperta, il Nibbio poteva diventare un forno a convezione. Gli ingegneri dicevano che era “carattere”. Gli equipaggi dicevano altro, ma questo non possiamo scriverlo. Il Nibbio aveva anche un talento unico: sapeva far arrabbiare l’acqua. Quando si sollevava sulle ali, generava onde alte mezzo metro che ribaltavano gommoni, dissuadevano i pesci e facevano saltare i tappi ai vini nei ristoranti del porto. Eppure era bellissimo. Snello, aggressivo, quasi elegante nella sua follia meccanica. Una “Uno Turbo” del mare, con la stessa filosofia: corri finché tutto regge, poi chiama qualcuno per farti recuperare.
Negli anni ’80 erano considerati il futuro. Agili, veloci, italiani fino al midollo. Poi arrivarono le fregate digitali, i radar computerizzati, le missioni “di pace” e il Nibbio finì tra i rottami con la dignità di un vecchio pugile che sa ancora colpire ma che nessuno fa più salire sul ring. Il più famoso, lo Sparviero, sopravvisse per diventare una mascotte: l’ultima nave che ancora faceva rumore da vera nave. Quando lo dismisero, qualcuno pianse, qualcuno brindò, qualcuno propose di farlo volare di nuovo “giusto per ricordo”, ma la Marina, saggiamente, preferì non rischiare un incendio nazionale. Il destino del Nibbio è quello tipico delle invenzioni italiane: funzionano troppo, poi si rompono troppo, poi vengono dimenticate troppo.
Ma per un attimo, quelle sessanta tonnellate d’alluminio e orgoglio ci fecero credere che l’Italia potesse dominare il mare con la stessa sfacciataggine con cui ci si parcheggia in seconda fila. La Classe Nibbio non era una nave. Era un gesto. Un insulto alla prudenza, una bestemmia alla logica, un capolavoro di eccesso. Rumorosa, fragile, instabile, irresistibile. Il tipo di mezzo che oggi verrebbe bocciato da Bruxelles, ma che all’epoca faceva battere il cuore a ogni marinaio con un po’ di benzina nel sangue. Oggi ne restano qualche foto sgranata, un paio di modellini e il ricordo di un tempo in cui la Marina non aveva bisogno di slide in PowerPoint per sembrare forte. Bastava un aliscafo con un cannone che si autodistruggeva e otto uomini con la faccia di chi non aveva paura di nulla, nemmeno dei vetri che esplodevano. Perché il Nibbio non navigava. Volava. E, come tutto ciò che vola troppo basso, finì presto a terra.
Ma almeno lo fece con stile, lasciando un buco nell’acqua grande quanto la nostra nostalgia per quando l’Italia osava, e dimostrando che, quando vuole, sa fare cose incredibili — ma poi le smonta, le archivia e le rottama come un motorino senza bollo.
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