Il sottufficiale di ieri, di oggi e di domani-Cuore, tecnica e sacrificio

Un approfondimento dell’amico Nunzio Giancarlo Bianco

Quello che voglio condividere è un pensiero che nasce da dentro, dal profondo. Frutto di un vissuto intenso, fatto di responsabilità, di sfide, di cambiamenti, ma anche di rinunce e di amore per un’uniforme che non è mai stata solo un abito da lavoro, ma una scelta di vita.

Parlo con cognizione del passato e del presente. Il futuro, invece, resta tutto da scrivere — e molto dipenderà da quanto sapremo accogliere la tecnologia, ma anche da quanto chi guida sarà capace di riconoscere e valorizzare le donne e gli uomini che compongono le Forze Armate.

Quando mi sono arruolato, bastava la licenza media. Per mille posti disponibili ci presentammo in settecentocinquanta. Era una scelta dettata non dalla mancanza di alternative nel mondo civile — anzi, il lavoro non mancava — ma dal desiderio autentico di intraprendere una vita diversa, fatta di regole, di ideali, di appartenenza.

Erano anni in cui si seguiva un sogno. La leva era ancora in vigore, e i sottufficiali come me si trovarono in una fase di passaggio, un vero spartiacque: l’ingresso della tecnologia in un mondo fino ad allora ancora legato a sistemi analogici, alla manualità, all’esperienza empirica.

Ognuno di noi proveniva da una diversa specializzazione: cuochi, meccanici, infermieri, segnalatori, tecnici… tutti uniti da una sola missione.

Io parlo da tecnico elettronico delle comunicazioni. Quando iniziai, si lavorava ancora con apparati valvolari. Oggi può sembrare preistoria, ma dietro quelle valvole c’era una magia. Capirne il funzionamento era un’arte. Vederle illuminarsi era quasi poetico, ma quel bagliore portava con sé anche difficoltà tecniche, fragilità, calore da domare. Eppure, noi sapevamo sempre come risolvere i problemi, con competenza, con intuito, con tanta passione.

Poi arrivarono i transistor, e poi i microprocessori, e da lì il mondo cambiò per sempre. Computer, comunicazioni satellitari, fibra ottica. La tecnologia correva, spesso più veloce della nostra stessa formazione. Ma noi non ci siamo mai arresi. Anche con una preparazione iniziale modesta, abbiamo saputo affrontare ogni sfida, con dignità e senso del dovere.

Eppure, dietro ogni apparato riparato, ogni comunicazione ripristinata, ogni servizio reso, c’era una persona. C’era un uomo o una donna che spesso lavorava di notte, che non tornava a casa per giorni, settimane, a volte mesi. C’era una famiglia lontana, un figlio che cresceva senza il papà o la mamma, una festa mancata, una carezza rimandata.

Questo è un aspetto che raramente si racconta: il sacrificio silenzioso della distanza dagli affetti, la forza che serve per restare lucidi quando il cuore vorrebbe essere altrove. È qui che emerge la vera grandezza del sottufficiale: nella capacità di tenere insieme il dovere e l’amore, la professionalità e l’umanità.

Essere sottufficiale non è mai stato solo un mestiere. È stato, ed è tutt’oggi, uno stile di vita. Significa essere ponte tra i vertici e la truppa, guida e punto di riferimento, tecnico e militare, capo e confidente. Un ruolo che richiede cuore saldo, testa lucida e mani sempre pronte.

Oggi i sottufficiali sono diplomati, molti anche laureati. Più preparati sulla carta, certo, e selezionati tra migliaia di candidati. Il futuro offre loro più opportunità, ma la base non cambia: solo chi assolve ai propri doveri con dedizione può maturare i propri diritti.

Il mio augurio, per chi verrà, è che non perda mai il senso profondo di questa scelta. Che non dimentichi che ogni uniforme è fatta di stoffa e di simboli, ma soprattutto di sacrifici, di emozioni, di orgoglio. E che in ogni compito — tecnico, operativo o logistico che sia — si senta il privilegio di essere al servizio di tutti, con umiltà e con onore.

In conclusione

Voglio chiudere con un ricordo doveroso, che porto nel cuore.

Un pensiero rivolto a chi ha pagato con la propria vita il prezzo più alto, nell’adempimento del proprio dovere. A chi è caduto in servizio, spesso lontano da casa, in missioni silenziose ma fondamentali per la sicurezza del nostro Paese.

Un pensiero commosso a coloro che si sono ammalati per esposizione all’amianto nelle vecchie unità navali o nelle strutture militari di un tempo, quando mancavano conoscenze e tutele. E a chi ha subito le conseguenze dell’uranio impoverito, senza sapere, senza poter scegliere, ma sempre con la divisa addosso e lo spirito di servizio nel cuore.

Ricordo anche chi è rimasto vittima di incidenti durante l’addestramento o in operazioni, dove l’imprevisto non lascia spazio al rimpianto, ma impone rispetto e memoria.

A tutti loro va il mio più profondo onore. Ai loro nomi, ai loro volti, alle loro famiglie. Nessuna medaglia può compensare ciò che è stato tolto, ma la memoria è un dovere sacro che deve vivere in chi resta.

Perché chi indossa una divisa non è solo un tecnico, un soldato, un operatore. È, prima di tutto, una persona che ha scelto di servire. Con sacrificio. Con dignità. Con silenzioso orgoglio.

Onore a loro. E onore a chi ogni giorno continua a servire. Per la Difesa. Per l’Italia.

timone

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