Ancora un racconto di Dario pubblicato sul mensile “Il Corriere di Carmagnola”
Scendendo le scale con tutta l’attrezzatura ho subito un pensiero: partirà la macchina visto che ieri ha fatto fatica a mettersi in moto?
Speriamo. Appena apro il portone mi investe un’ondata di aria gelida, getto lo sguardo verso i giardini al di là del corso e li vedo a fatica attraverso un velo caliginoso e freddo, sono completamente bianchi, la galaverna. Beh, mi dico, siamo a dicembre, tra pochi giorni è Natale, non posso pretendere le temperature estive. Riconosco a fatica la mia 500F blu ottanio dalla targa, anch’essa è complelamente ricoperta da un velo ghiacciato. Poso le canne e il resto dell’attrezzatura da pesca sul sedile posteriore e mi accomodo al volante incrociando le dita. Parte subito, dopo la tipica e classica tosse del Cinquino. Intelligente la mia vettura, oggi è sabato, che non parta nei giorni di lavoro lo accetto. La nebbia è spessa, lo sguardo non mette a fuoco alcunchè oltre una ventina di metri, oltretutto sono ancora in città, chissà cosa troverò per strada raggiungendo la zona di pesca dove grossi “cuaiass” (cavedani) mi stanno aspettando. Appena lascio la città alle mie spalle direzione Chivasso, trovo un muro di nebbia, a malapena vedo una striscia bianca davanti al musetto, la velocità si limita ai 20 all’ora e comincio a pensare che se trovo uno spiazzo dove fare manovra potrei tornare a casa.
Improvvisamente una sagoma mi si para davanti, freno e rallento quanto basta per continuare a vederla tenendomi a distanza di sicurezza. L’occhio professionale mi fa notare i fanali posteriori, capisco il modello, la marca e il codice e con un’occhiata più attenta determino anche la marca del camion, è un Fiat 684, sicuramente dalle pessime condizioni della verniciatura della sponda del cassone è un autocarro che trasporta sabbia. Bene, arriverà sulle rive di un fiume per caricare.
Il viaggio prosegue, un tempo interminabile per percorrere i relativi pochi chilometri, ho gli occhi arrossati per lo sforzo di tenere sotto controllo la strada e il mezzo davanti, l’abitacolo è diventato un forno, i vetri sono appannati tanto da doverli asciugare con uno straccio, il selciato è sdrucciolevole e la fine caduta di sabbia (avevo ragione) mi colpisce il lunotto. All’improvviso un cartello stradale sul bordo strada mi indica la deviazione per raggiungere il grande fiume. Inizio a percorrere il sentiero che si insinua tra gli alberi costeggianti l’argine, tra buche piene d’acqua raschio il fondo sperando di non strappare la marmitta e di non impantanarmi nel fango, mentre le foglie che cadono copiose dalle fronde si incollano al vetro talmente bene che neppure il tergicristallo riesce a togliere…forse dovrei cambiare le spazzole. Ma eccolo il posto designato per la splendida battuta di pesca. Parcheggio alla bella e meglio su un prato, scarico il materiale e mi accorgo subito che la nebbia è diventata ancora più fitta, un venticello gelato mi raffredda allontanando tutto il calore accumulato durante il viaggio e non riesco a capire da dove iniziano i brividi. Ma tant’è, armato di tutto punto mi avvicino all’acqua scendendo dall’argine per un paio di metri; se la posizione in basso mi tiene al coperto dal vento è anche vero che il gelo vicino all’acqua ristagna e la nebbia che sale mi lascia addosso uno strato umido che ghiaccia praticamente subito, vestendomi di bianco. Mi paragono a un Babbo Natale pescatore. Con il residuo tepore che ancora sento sulle mani riesco a allungare la canna telescopica, a infilare il filo di nylon negli anelli, a montare il galleggiante, i piombini e l’amo, poi innesco due gianin surgelati ( i bigattini) e infine calo il tutto nell’acqua. Sono costretto a chinarmi perché la nebbia si solleva dalla superficie lasciando uno spazio di circa mezzo metro di perfetta visibilità, ma solo in quello riesco a seguire lo scorrere del galleggiante in superficie. Questa posizione logicamente sposta il vestiario in maniera scomposta scoprendo, ora in un punto ora in un altro, parti di pelle che come una spugna assorbono il gelo e i brividi di cui non sento affatto la necessità e che oltrettutto si sommano a quelli che già sento. Quando quasi non vedo più il galleggiante recupero il filo con il mulinello trovando difficoltà e non capisco perché girando la manovella incontro una resistenza accompagnata da uno strano stridore, fino a quando vedo una lunga e rigida linea bianca che è diventata tutt’uno con la canna. Il filo che si adagia sull’acqua infatti si ghiaccia appena si solleva dal liquido elemento. Nel frattempo i guanti di lana che indosso e che ho dovuto togliere per portare a termine i preliminari non svolgono affatto il loro compito, le punte del pollice, indice e medio di entrambe le mani sono oltre che gelate e bianche anche doloranti, un dolore che poco alla volta si estende a tutte le falangi. Mi domando: “ma chi me lo ha fatto fare”, neanche il tempo di finire di domandarmelo che mi ritrovo a richiudere la canna, di tagliare il filo e buttare nella borsa tutta la montatura, con l”intento di abbandonare questa specie di Polo Nord il più in fretta possibile, rimandando la sistemazione del tutto quando a casa. Un rumore sordo, attutito dalla foschia e dalla posizione inferiore rispetto all’argine mi blocca, seguito da un scroscio di pioggia davanti a me, un secondo dopo, con il classico strido, un fagiano sorvola la mia posizione. In effetti era un colpo di fucile da caccia, la pioggia era l’incontro della rosa di pallini di piombo con la superficie dell’acqua e lo strido probabilmente era la risata dell’uccello felice di non essere stato colpito. Nonostante il freddo mi sono messo a ridere pensando che dall’altra sponda del Po un fagiano faceva con le ali il verso dell’ombrello. Torno al presente e probabilmente l’urlo che pianto lo sentono pure a Casale, ma non sento risposte, non so se la caccia è ancora aperta ma il cacciatore dotato di radar per sparare senza visibilità si è sicuramente dileguato. Monto in macchina e dopo averla messa in moto attendo, battendo i denti dal freddo, che il riscaldamento mi scongeli. Sarà per l’effetto del sopravvenuto calore che mi addormento, Sogno di spiaccicarmi su un termosifone, come una lucertola su un masso in piena estate, godendo dei brividi che lentamente si allontanano e che in questo caso sono un sensazione bellissima di godimento. Quanto dormo? non lo so, ma appena mi sveglio non ho neppure voglia di guardare l’orologio, piccola manovra e prendo la strada del ritorno. A fatica, nella bruma, torno sulla statale, continuo a vedere poco e questa volta sono solo, nessun mezzo mi guida, mi indica il percorso. Ho paura di avvicinarmi troppo al bordo strada come al centro della stessa, quindi rallento, tenendo una velocità se possibile ancora più bassa di quella tenuta nel viaggio di andata. Ma comunque arrivo illeso in città trovando il sole. Tiro giù il finestrino per assaporare un po’ di calore, ma la temperatura mi fa desistere in un attimo. Giusto il tempo di arrivare sotto casa, chiudere la macchina, salire le scale e appiccicarmi al termosifone appena entrato…a volte i sogni si avverano. Rivolgo un pensiero al grande fiume, con tanto amore e rispetto gli sussurro: “ ci rivediamo in primavera”..
Dario Bilotti
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