Una battuta di pesca fatale – Dario Bilotti

pescatori professionisti

Dal Mensile “Corriere di Carmagnola” il Racconto del mese …  come sempre di Dario Bilotti 

Il racconto del mese … Una battuta di pesca fatale

Raggiungo Cuorgnè mentre inizia ad albeggiare, è primavera inoltrata, ma l’aria mattutina è ancora alquanto fresca. Improvvisa mi sorge la voglia di un caffè e di un cornetto. Trovo un bar aperto e mi ci infilo. Il titolare dell’esercizio mi squadra dalla testa ai piedi e esordisce con: “viene da fuori? non l’ho mai visto”. Gli spiego che voglio salire in valle Orco per andare a pescare, perché  trote e temoli mi attendono. Il curioso e gentile signore mi consiglia di andare in Val Soana, meno battuta in quanto scomoda, ma con zone di pesca sicuramente più appaganti seppur con meno pesce. Realizzo subito che detto da un paesano  potrebbe essere vero e già mi immagino enormi prede. Esco dal bar e dopo aver attraversato il ponte sull’Orco comincio a salire, attraverso paesini arroccati ai lati di una strada tortuosa costeggiante il torrente e dopo qualche chilometro  finalmente la salita aumenta la pendenza e comincio a non vedere più lo scorrere dell’acqua. Non trovo alcuno spazio dove parcheggiare e quindi continuo a salire. Poco prima di una curva finalmente uno spiazzo. Mi fermo e prima di cominciare la vestizione, attraverso la strada per avere un’idea della zona di pesca dove poter appoggiare le mie mosche finte. Il torrente è a circa trenta metri sotto la strada, incanalato in una forra dalle pareti a strapiombo e con tanta vegetazione, alberi d’alto fusto che tendono verso l’alto tra cespugli e rocce in bilico sul bordo. Sotto fa bella mostra di sè una immagine da cartolina. Tra due rocce una cascata, una sorta di invaso largo più o meno venti metri per quindici  che ne accoglie l’acqua e l’uscita della stessa dietro un enorme masso con una parete perfettamente verticale. Memore delle mie ricerche di funghi quando, per raggiungere appezzamenti che immaginavo fruttuosi, mi aggrappavo ai rami delle piante per scendere o per salire, mi convinco che adottando lo stesso metodo il risultato finale dovrebbe essere il medesimo. Torno alla macchina, mi infilo gli stivali tutta coscia, indosso il giubbotto dopo aver controllato il contenuto, mi metto a tracolla il contenitore di alluminio della canna da mosca, la mia fedele Loomis e comincio la discesa. Ripongo gli occhiali nella custodia e infilo anch’essa in un tascone, dovessero cadermi da basso dovrei accendere un mutuo. I primi cinque metri di discesa sono relativamente agevoli, poi iniziano i problemi. Lo strapiombo diventa sempre più pericoloso, i lunghi fili d’erba umidi non permettono la presa sul terreno della suola di gomma degli stivali, la custodia della canna da pesca si impiglia sempre più spesso sui rami più bassi, devo fare attenzione alle piante perché alcune sono morte e quindi non offrono la necessaria sicurezza, addirittura non vedo neppure più l’acqua, ne sento solo il rumore e ho paura di essermi allontanato. Continuo la discesa con sempre più apprensione, getto uno sguardo in alto e presumo d’essere arrivato a circa metà percorso. Mi fermo un attimo, nonostante la poca luce e il freddo sono sudato marcio, le braccia e le mani mi fanno male, ho graffi dappertutto e macchioline di sangue mi sporcano la pelle. Delle foglie si sono infilate tra schiena e camicia attraverso il colletto e mi solleticano e  pizzicano la pelle, però o mi reggo o mi gratto. Preferisco reggermi. E continuo a muovermi, come Tarzan, tra una pianta e l’altra continuando a scendere ed eccolo  l’invaso. Splendido. L’acqua è talmente trasparente che vedo il fondo notando il colore di ogni singola pietra, l’esperienza mi dice che la profondità si aggira intorno ai quattro metri. La cascata è talmente verticale che sono pochi gli spruzzi che disturbano la superficie tanto che essa sembra quella di un calmo lago di montagna. Calcolo che per arrivare all’acqua ci saranno si e no un paio di metri quindi un ultimo sforzo e poi quelle enormi figure scure che vedo nuotare  a un paio di metri di profondità e che salgono i superficie per catturare gli insetti saranno mie. Per riprendere nuovamente fiato me ne sto seduto su un masso, l’unico in mezzo al bosco verticale e comincio a preparare l’attrezzatura. Tiro fuori dalla scatola un paio di mosche finte, grosse e marroni sono l’imitazione della friganea, limo l’ardiglione dell’amo per non rovinare eccessivamente le labbra dei pescioni che mi appresto a catturare, visto che poi li rimetterò nel loro elemento. Mi alzo e dopo aver riposto in zona comoda le esche finte compio l’ultimo sforzo. Ed eccola la zona di pesca. Tra la parete e l’inizio della zona bagnata dall’acqua non c’è più di un metro e mezzo di sabbia e ghiaia che dolcemente declina verso il profondo. Mettendomi con le spalle attaccate alla parete e con una tecnica particolare di lancio dovrei riuscire a lanciare la mosca circa a metà invaso. A quaranta centimetri d’altezza dalla spiaggetta esce in orizzontale il tronco di una pianta che dopo un paio di spanne o poco più sale in verticale, il giusto appoggio di un piede ” stivalato” prima di appoggiare l’altro sulla riva. Dopo aver saggiato con un paio di pestoni la consistenza del tronco ( quando sono solo aumento la prudenza)  ci appoggio sopra un piede poi mi ci siedo con le gambe a penzoloni… e il tronco si spezza sotto il mio peso.  I piedi toccano la ghiaia mentre il legno prende la via del fondovalle, accidenti a me, penso, alla faccia della prudenza, avrei dovuto accorgermi che l’albero era marcio. Ma mi rendo conto che lentamente sto sprofondando nella ghiaia, una superficie instabile che piano piano sta scivolando verso il centro dell’invaso, non ho appigli alle mie spalle, il ramo più vicino non è raggiungibile senza il tronco che si è rotto.  Più punto la schiena verso la parete più la ghiaia scivola in avanti, se mi metto in verticale aumento il peso e quindi sprofondo ulteriormente. Faccio una rapida disamina di quanto mi sta succedendo: se urlo non mi sente nessuno, se mi agito peggioro la situazione. Mentre la discesa diventa inesorabile cerco di liberarmi del peso superfluo, mi sfilo il contenitore della canna e lo butto due metri più in alto sperando che raggiunga il masso su cui ero seduto, stessa sorte del giubbotto ma che non arriva a destinazione, cade in acqua a due metri da me; mentre l’acqua è arrivata all’altezza delle ginocchia mi rendo conto che anch’io sto scivolando verso il centro del bacino e realizzo che se gli stivali si riempiono d’acqua non ho scampo. Cosa che lentamente si sta avverando, comincio a sentire l’acqua gelida che mi sta bagnando i calzoni all’altezza delle cosce, poi il freddo mi attanaglia la pancia, lo stomaco e ho un blocco del respiro quando mi si  bagna il petto. Cerco di girarmi verso la roccia per aggrapparmici con  le unghie, ma ogni movimento smuove ancor più la ghiaia. Cerco di rimanere mentalmente freddo per trovare una soluzione, l’unica sarebbe sfilarmi gli stivali e lasciarmi andare nella corrente sperando che oltre la roccia sulla cui parete scorre il torrente non ci siano sorprese, ma la cosa è impossibile da fare. Oppure sperare che… immaginare un… con un po’ di fortuna…No, è passato il tempo per la soluzione, il freddo mi assale, batto i denti e questo mi impedisce anche di pensare. Ormai spaventato e deluso per questa fine orrenda, in un attimo mi passa davanti ogni istante della vita vissuta che, nonostante le rogne inevitabili, è stata felice. Aosta, Torino, la Marina Militare, mia moglie che non mi vedrà tornare, i parenti, gli amici. Cerco con un ultimo sforzo di tenermi a galla per respirare  mentre il peso mi sta portando inesorabilmente a fondo. E mi sveglio….           

Dario viso Dario Bilotti

Copia dell’articolo

Articolo Dario pesca

Se volete leggere l’articolo in originale andate su questo link, lo trovate a pagina 34

 

timone

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